Ritorno al Medioevo
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Re: Ritorno al Medioevo
Visti nel cielo nel Medioevo...
La trave fiammeggiante...
La pietra di Ensisheim, Alsazia.
Una delle più famose raffigurazioni di un meteorite che narra la caduta avvenuta i 7 novembre 1492 di una grossa pietra piatta nel vllaggio di Ensischeim, Alsazia.
Ensisheim è un piccolo villaggio fra Bale e Colmar, i suoi abitanti verso mezzogiorno furono testimoni di un avvenimento considerato soprannaturale.
La condrite pesante 127 kg è custodita ancora nel museo cittadino.
La trave fiammeggiante...
Tratto dalle Notabilia Temporum – di Angelo Tummulillis
“Nell’anno 1465 nel mese di febbraio, durante il regno di Enrico IV, apparvero molti segni nell’aria.
All’ora prima del giorno 19 apparve una specie di grande nave infuocata corrente per l’aria verso settentrione ed apparve ancora nei giorni 20 e 21, non alla stessa ora ma più tardi.”
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Il fatto che l’oggetto sia stato visto percorrere il cielo per tre giorni consecutivi elimina l’ipotesi di una meteora. Rimane l’eventualità si sia trattato di una cometa
...Re: Ritorno al Medioevo
Il Medioevo dei bambini
La voce dei bambini non è mai rappresentata, quindi l’opinione che possiamo farci dell’infanzia nel Medioevo si rintraccia solamente nelle parole degli adulti. La disparità sociale allora come adesso differenziava anche la vita dei bambini.
Nelle famiglie medievali le nascite erano frequenti ma la mortalità dei piccoli nel venire al mondo o nei primi anni di vita era elevata. Secondo la mentalità del tempo essere una buona moglie era inscindibile dall’essere una buona madre e le donne sposate erano destinate a generare figli fino alla morte.(Come dichiarava il domenicano Nicola di Gorran)
Superato il difficile momento della nascita, la sopravvivenza del piccolo era legata alla qualità dell’allattamento e alle condizioni igieniche. Quando le madri non potevano allattare il nascituro, anche perché si credeva che a causa delle continue gravidanze il latte fosse nocivo, nelle classi più agiate lo si inviava in campagna da una balia a pagamento, cosa che spesso si rivelava fatale per i neonati a causa delle carenti condizioni igieniche, delle poche attenzioni o della scarsa qualità del latte.
Nelle famiglie più povere, a sei, sette anni, soprattutto i maschi, erano assunti come garzoni di artigiani o affidati ai preti per essere avviati al sacerdozio. Le femmine invece andavano a servizio di qualche famiglia in cambio di vitto e alloggio.
Trovo interessante un passo del “Libro di buoni costumi” di Paolo da Certaldo, dove è evidente la diversa attenzione dedicata i due sessi: “ Lo fanciullo lo si deve tenere bene
netto e caldo e poi fallo studiare o pollo a quell'arte che più si diletta…e s’ellé fanciulla femmina polla a cucire e non a leggere che non sta bene a una femmina saper leggere. Se la vuoli farla monaca mettila nel munistero anzi ch’abbia la malizia di conoscere la vanità del mondo. Vestila bene e come la pasci non le cale (non le importa) pur ch’abbia sua vita (cioè a sufficienza per mantenersi in vita). Insegnale a fare il pane, abbuterare e fare il bucato, filare e tessere, ricamare… e simili cose che quando la mariti non pare una decima (scimunita)”.
Del resto tutti gli educatori dell’epoca, per i quali la funzione della donna era di essere riproduttiva, ossessionati dalla custodia del corpo femminile (quindi della virtù) proponevano durante l’infanzia il controllo alimentare, la proibizione del movimento fisico, del gioco e di ogni stimolo nell’educazione delle bambine.
La scuola e la lettura, tuttavia, rimasero per secoli appannaggio delle classi privilegiate, per le classi popolari, soprattutto nelle campagne (dove l’educazione restò affidata alla chiesa) l’opportunità di ricevere istruzione era pari a zero. Del resto come predicava Giordano da Rivalto, la condizione servile dei lavoratori era considerata espressione della volontà di Dio…
Così predicava quella domenica del 3 marzo 1305:
“ Vedete quanta cura ha Dio di tutte le genti, egli ha cura di ciascuno come te. Perché fae Dio tante diversitadi nel mondo, i ricchi e i poveri, i forti, i deboli, se tutti fossero re chi farebbe il pane? Chi lavorerebbe la terra? Ha ordinato Dio che siano ricchi e poveri, acciocché’ è i ricchi siano serviti dai poveri e i poveri sovvenuti dai ricchi. A che i poveri sono ordinati?
Acciocch’è ricchi guadagnino per loro vita eterna. Tutto questo è grande ordine di Dio e dimostra ch’egli è pastore universale, reggitore di tutto il mondo, perché ha cura d’ogni gente e d’ogni schiatta.”
Quindi se la necessità di disparità sociale era considerata espressione della volontà di Dio…
assurdo ritenere la scuola alla portata di tutte quelle persone il cui unico dovere era di coltivare campi e svolgere mestieri servili.
Per tornare ai bambini del Medioevo, scarsa nutrizione, pericoli, malattie e doveri, rendevano breve la vita dell’infanzia, sia dei ricchi e ancor più dei poveri…per i quali da sopravissuti il destino non era dei migliori…
Mille e non più Mille
Poco prima dell’anno mille dell’era cristiana, l’umanità si paralizzò credendo vicino il giorno dl Giudizio.
La notte di San Silvestro dovette rappresentare qualcosa di terrorizzante, con “le turbe silenziose raccolte attorno ai manieri, o accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le piazze e alla campagna” (Giosuè Carducci).
Il giorno dopo, fu quasi un miracolo: il Sole si levò al canto del gallo!
Il periodo che seguì vide le genti tornare alacremente al lavoro, disboscarono terre paludose, le bonificarono e trasformarono in campi da coltivare.
Nel frattempo in tutta Europa si moltiplicarono le chiese.
Che dire? Sì, certamente fu una prospettiva da far tremare le vene e i polsi, ma se invece non vi fosse stata una profezia biblica di questo genere?
Un docente di Storia Medievale all’Università di Bologna, la spiega così: “ Che la gente si aspettasse la fine del mondo al termine del primo millennio è un mito costruito a posteriori, tra il 500 e l’epoca romantica. Mille e non più mille è un falso, non si tratta di una profezia di Gesù, come fu dato di credere.”
I più nemmeno sapevano di vivere nell’anno mille: le annate si contavano in base agli anni dei governi dei sovrani.
Oggi, molti storici, anzi, quasi tutti, la pensano più o meno così. I primi a contestare la ricostruzione tradizionale dell’anno Mille furono alcuni studiosi del 900, soprattutto George Duby (1919-1996), docente del prestigioso Collège de France e membro dell’Accadémie française..
In realtà, a detta degli studiosi, fra gli autori antichi che tramandarono notizie sul periodo, nessuno parla di terrore millenaristico. Per quanto si sa, ad annunciare il Giudizio imminente furono solo due predicatori, uno in Toscana e l’altro a Parigi.
Tra chi sostenne l’autenticità del possibile nesso tra certi fatti e una profezia biblica fu Rodolfo il Glabro, un cronista di quei tempi, monaco transalpino, che, colpito dall’eruzione del Vesuvio, (993) nelle sue storie evoca “il fuoco dal cielo”.
In effetti, in quegli anni oltre le pendici del Vesuvio bruciò la chiesa di Mont Saint Michel in Normandia, poi il tetto della prima basilica di san Pietro. Così la narra Il Glabro:
“ Allora, non trovando altro mezzo per arginare l’incombente disastro, una folla di fedeli si precipitò in massa, con grida di disperazione, verso il sepolcro stesso del principe degli Apostoli, scongiurandolo a lungo nel timore che, se non avesse difeso la sua chiesa, molti in tutto il mondo avrebbero abbandonato la fede”.
A sconfessare il mito del Mille e non più Mille, basta ricordare che nel X secolo il mondo cristiano non aveva un unico calendario: a Roma il capodanno era a gennaio, ma a Pisa, in Inghilterra e in Irlanda lo festeggiavano il 25 marzo, mentre l’Impero Bizantino e parte del meridione in Italia lo posticipavano a settembre. Come poteva avverarsi in tale quadro la notte tanto temuta?
Infine: nel X secolo la maggioranza della popolazione era analfabeta. Quanti potevano aver letto l’Apocalisse se non eruditi uomini di chiesa? Come potevano temere una profezia biblica che non conoscevano?
Come fu, come non fu, dagli umanisti rinascimentali, per dimostrare quanto fosse oscuro il Medioevo, agli illuministi del Settecento per esaltare il primato della ragione sui “secoli bui”, col tempo il mito dell’Anno Mille e non più Mille, divenne un “miraggio storico in grado di imporsi facilmente in un universo mentale tutto disposto ad accoglierlo”.
La potente abazia di Cluny
Proprio vero che l’abito non fa il monaco?
Spesso la veste unita ai privilegi, a volte, il monaco, lo fa.
Nel Medioevo i monasteri avevano enormi poteri politici ed economici, caso significativo fu quello dell’abbazia francese di Cluny, divenuta una specie di enorme Stato nello Stato, proprietario di ricchezze, vasti possedimenti e leggi proprie.
Tutto iniziò con una donazione avvenuta nei primi anni del secolo X, in Francia, quando il potente conte di Macon e duca di Aquitania donò, in memoria dei santi Pietro e Paolo, la villa di Cluny con tutte le pertinenze, cioè ville, cappelle, servi, vigne, campi, boschi, corsi d’acqua, mulini e tutto il colto e l’incolto.
Il compito di fondare in quel luogo un monastero fu affidato a un erudito abate, instancabile e intransigente benedettino, il quale si sarebbe preso ogni diritto di comandare a Cluny.
L’abazia ottenne la tutela del Papa e un diritto di esenzione da ogni forma di controllo da parte dei vescovi, potendo così usufruire di un’autonomia senza precedenti.
Il privilegio fu enorme ma non unico per quei benedettini francesi, che ebbero un altro esclusivo vantaggio: il libero accesso alla cultura. Infatti, solo indossando il saio si poteva entrare nelle biblioteche e passare anche la vita copiando manoscritti o scrivere trattati.
Altro vantaggio che ebbe Cluny fu la libertà dell’abate di stabilire le regole, che divennero meno rigide rispetto alla disciplina benedettina. In pratica, l’”ora et labora” divenne solo “ora”.
A lavorare ci pensavano i servi e i monaci a pregare e cantare.
Ad ammorbidire ulteriormente la regola monacense, intervenne in seguito la scelta delle stoffe, dei modelli e i colori per il saio, cui seguì la raffinatezza della cucina, cose che attirarono le critiche dei rivali dell’ordine cistercense, che, pure a loro volta, diverranno molto influenti all’interno delle gerarchie ecclesiastiche.
Insomma, per essere umili servitori di Dio non se la passavano affatto male.
I privilegi affluivano nelle grandi abbazie perché i signori erano spesso solidali con gli ordini più potenti, ritenendo giusto aiutare i luoghi di preghiera la cui santità si sarebbe riflessa sul territorio. In quei secoli, dunque, la ricchezza di una chiesa pare ne testimoniasse la santità.
Le ricchezze, il patrimonio dei monasteri crebbe a dismisura, sommandosi, nel caso di Cluny, a quelli dei monasteri affiliati e dei priorati, sorta di succursali monastiche che riconoscevano come proprio abate quello della casa madre francese, con la quale diedero vita alla potente congregazione cluniacense.
Furono stretti rapporti con monasteri sparsi in mezza Europa divenendo così, la più famosa e sovvenzionata istituzione monastica europea.
I monaci di Cluny avevano tutele politiche ed economiche, ma soprattutto esercitavano potere intorno a loro.
Nel XII secolo a contestare la ricchezza e il potere temporale della chiesa sopraggiunsero gli ordini rigoristi, nati in contrapposizione ai lussi stile Cluny, schierati a favore di una maggiore austerità.
Nell’epoca in cui i crociati erano impegnati nelle guerre contro l’Islam, e la chiesa romana era in piena crisi morale, la grandezza di Cluny e la sua ansia di potere rappresentavano una nota stonata.
Nuovi ordini, in aperta polemica con la congregazione, si distinsero particolarmente, tra questi i cistercensi riformati da san Bernardo e i certosini di san Bruno, dediti alla preghiera e al silenzio assoluto, che rifiutavano le donazioni.
Il rigore non impedì, nonostante tutto a questi ordini, di accumulare a loro volta grande potere anche temporale.
La dottrina di Abelardo
Abelardo divenne noto per la sua audace difesa della ragione e della scienza rispetto alla fede, posizione che gli attirò gli strali di Bernardo di Chiaravalle.
Nel suo trattato “Sic et non” (Sì e no) teorizzava che solo la ricerca razionale può condurre alla Verità, svincolando quindi la scienza dalle sacre scritture.
Altro suo trattato famoso fu la cosiddetta “morale dell’intenzione”, per cui non è l’azione a essere buona o malvagia in sé, ma l’intenzione con cui la si compie. Posizioni limite, quelle di Abelardo, che viene annoverato tra i padri della moderna filosofia.
Abelardo e Eloisa
Uno studioso e la sua bella allieva sono i protagonisti di una travagliata storia d’amore della Parigi medievale, appassionata e ricca di colpi di scena.
Lui, Pietro di Berengario, detto Abelardo, nato in Bretagna, primogenito del feudatario locale, era il più brillante intellettuale del momento. Con la sua logica schiacciante e le formidabili capacità dialettiche ottiene la cattedra di Parigi, attirando studenti da tutta Europa che accorrono per ascoltarlo.
Lei, Eloisa, giovane parigina nipote di un canonico, Fulberto, il quale, contrariamente alla consuetudine dell’epoca che voleva la donna lasciata nella più completa ignoranza, decise di impartirle un’educazione di prim’ordine nel convento di Argenteuil. Geometria, astronomia, aritmetica, grammatica musica, dialettica, non ebbero segreti per lei, così pure il latino, il greco e l’ebraico.
Le sue virtù erano sulla bocca di tutti.
Abelardo, quando chiamato dallo zio Fulberto per impartirle lezioni di teologia entra in casa di Eloisa, ha trentanove anni ed è al culmine della sua carriera.
Lei, sedicenne, se ne innamora subito, stordita dal suo fascino irresistibile.
Scocca la scintilla e le lezioni ben presto divengono solo un’occasione per stare assieme.
Abelardo, da algido teologo, si è trasformato in un amante focoso e incontentabile, trascura le lezioni e sale in cattedra con riluttanza.
Rapisce Eloisa di notte e la porta, travestita da monaca, nella casa paterna in Bretagna, dove nel 1116 nasce Astrolabio, il loro bambino.
Si sposano a Parigi, di nascosto all’alba.
Lo zio Fulberto furioso divulga la notizia. Abelardo, per evitare scandali conduce Eloisa al monastero di Argenteuil, lasciandola con le monache che l’avevano educata. Poi torna a insegnare, mentre Eloisa presi i voti rimane nel convento.
È lei che accoglie le spoglie del suo amato alla sua morte, avvenuta il 21 aprile 1142.
Ventidue anni dopo, il 16 maggio 1164, raggiunge il suo sposo nel sepolcro.
La leggenda racconta che Abelardo, all’apertura della lastra, abbia spalancato le braccia per ricevere l’amata nell’ultimo eterno abbraccio.
Re: Ritorno al Medioevo
Lo stress da battaglia
I cavalieri medioevali, al cinema e nei racconti romantici, sono descritti come eroi coraggiosi e leali, che si battono fino alla fine senza paura.
In realtà, secondo una ricerca eseguita nell’Università di Copenaghen, emerge che nel medioevo, malnutriti, privati spesso del sonno, o costretti a dormire sulla nuda terra, avrebbero sofferto di grave stress psicologico.
Durante le campagne militari, veder perire molti dei loro compagni, e quotidianamente esposti essi stessi al rischio di morte, non poteva non incidere sul morale.
Lo studio si basa sulla rilettura di alcuni scritti (in parte mai studiati) come quelli di Goffredo di Charny, cavaliere e diplomatico francese vissuto nel Trecento.
È lo sconforto che emerge dai racconti cavallereschi, che lottavano con paura, impotenza e delusione.
Non dissimili da alcuni racconti di soldati della nostra epoca, sopravvissuti alle ultime guerre combattute sparse per il mondo, non propriamente armati di lancia, spada e cavallo bardato finemente, ma equipaggiati di armi meno “nobili”, alle quali essi stessi spesso soccombono senza saperlo.
Re: Ritorno al Medioevo
MAGIA DELLE CAMPANE
Una forma di magia cristiana nell’Europa dei secoli bui e del medioevo fu l’uso delle campane. Si suppone sia derivato dalla dottrina pitagorica e dalla sua credenza correlata fra suono e forma.
Il suono può plasmare e indirizzare l’energia, per esempio il suono di un corno o di una tromba per sua natura è un suono bellicoso, aggressivo, un suono di guerra, indicava la direzione verso cui i soldati dovevano caricare e poteva essere rappresentato come la furia esplosiva che permise alle trombe di Giosuè di abbattere le mura Di Gerico.
Il suono della campana, al contrario, diversamente da strumenti come il corno di ariete o il flauto di canna, non era un residuo del mondo naturale, essendo stata forgiata intenzionalmente a scopo sacro e rappresentava il trionfo dell’uomo sulla natura rigenerata, per cui in un contesto religioso diventava un veicolo dello spirito.
La loro fabbricazione richiedeva una cura scrupolosa e, una volta terminate, erano benedette con una complicata cerimonia: ogni campana era spruzzata con acqua santa, purificata, consacrata e unta con olio perché mettesse in fuga il demonio con il suo suono.
Talvolta era loro dato un nome come le spade, famosa fra tutte l’Excalibur di Artù.
Per capire l’importanza psicologica e spirituale che le campane esercitavano durante tutto il Medioevo, dovremo prima cercare di capire il terrore in cui vivevano i cristiani di quel tempo.
Gli insediamenti umani erano pochi, distanti e isolati gli uni dagli altri, circondati da miriadi di minacce: bestie selvagge, predoni, entità malvagie, idolatri nemici della chiesa. Ogni insediamento cristiano era un’enclave vulnerabile, immersa nella natura selvaggia.
Contro queste minacce lo scampanio sonoro costituiva un cerchio magico protettivo, una fortificazione difensiva, all’interno della quale vigeva l’ordine regolato da Dio.
Grazie a quel suono erano tenute a bada e allontanate le forze del male e dell’oscurità.
“ Dal suono delle campane che chiamano i cristiani alla preghiera, i demoni sono terrorizzati e fuggono, le potenze dell’aria sono cacciate”.
Re: Ritorno al Medioevo
L’epoca d’oro dell’araldica fu il Cinquecento.
Nel’Europa lacerata da estenuanti conflitti religiosi, si vagheggiava una cavalleria fatta di guerrieri impavidi e destrieri superbi, sontuosamente addobbati.
Scudi, cimieri, armature e sfarzose gualdrappe riempivano di magia i tornei.
È proprio in questa cornice che nascono libri miniati di particolare gusto, ravvivato dal fascino delle figure araldiche e delle giostre a cavallo. Il tutto racchiuso in uno stile delicato e fiabesco.
Il libro particolare che ne descrive le scene, il “Turnierbuch”, chiamato anche “ Libro dei tornei”, è stato realizzato fra il 1505 e il 1511, ad Augusta in Baviera, dal nobile Marx Walther, che personalmente partecipò ai tornei.
Ultima modifica di Annali il Dom Giu 04, 2017 10:29 pm - modificato 1 volta.
Ritorno al Medioevo
Giostre e tornei medioevali
Nel Medioevo i tornei non erano solo il principale divertimento dei cavalieri, erano anche la strada più sicura verso la fama.
I tornei erano pure utili come strumento di addestramento militare, oltre a dare modo ai nobili di risolvere le contese sorte sul campo d’onore.
La parola “torneo” deriva dal verbo francese tourner, cioè girare, roteare. In principio si trattava di scontri di gruppo e lo scopo non era uccidere gli avversari ma catturarli, anche se, in qualche occasione, specie nelle prime fasi, poiché le armi non erano spuntate, accadeva che spesso un combattente vi perdesse la vita. Spade e lance smussate furono imposte col tempo.
Con i concili Lateranensi II e III, e con decreti di sovrani cattolici, si tentò di mettere al bando i tornei, pur se non sempre tali decreti furono rispettati.
Per i signori feudali rappresentavano fonti di entrate oltre che un modo di mantenersi in allenamento.
La giostra, dal latino iuxta, (vicino) nel XIV secolo conquistò il favore dell’aristocrazia, a discapito del torneo ritenuto troppo pericoloso. Infatti, nella giostra, la vittoria consisteva nel disarcionarsi l’un l’altro e si concludeva solitamente, senza gravi conseguenze per i contendenti.
Il torneo si svolgeva in contemporaneità di manifestazioni di grande solennità, comunicato con anticipo di diverse settimane.
All’arrivo i cavalieri esponevano i loro scudi appendendoli ad alberi o a pali eretti a tal fine, in modo da farsi riconoscere. Prima delle gare, dopo suoni di trombe, timpani e tamburi, cavalieri e notabili si esibivano in cavalcate per la soddisfazione dei presenti.
I paladini poi, assistiti da scudieri e paggi, nelle rispettive tende indossavano l’armatura.
Dopo la verifica delle armi, che dovevano essere regolamentari, gli araldi annunciavano l’inizio del torneo.
I cavalieri, posizionati alle due estremità, lanciavano i cavalli al galoppo con le lance in resta, tenute nella mano destra e inclinate verso sinistra passando sopra al collo del cavallo.
La lancia, se mossa in modo corretto, urtava contro la corazza dell’avversario e si rompeva.
Ogni volta il cavaliere cambiava lancia in sostituzione a quella spezzata, cosa che poteva avvenire fino a sei volte.
Il vincitore era chi avesse spezzato il maggiore numero di lance contro l’avversario.
Un'altra sfida successiva si svolgeva a piedi, con mazze e spade spuntate. Infine l’ultima gara, a conclusione dello spettacolo, coinvolgeva più partecipanti divisi in due gruppi, che si sfidavano in una massiccia lotta a cavallo.
Conclusosi il torneo, il vincitore si recava alla tribuna d’onore, per ricevere i complimenti solitamente da una dama. L’evento terminava con un sontuoso banchetto, dove si celebravano i vincitori.
I tornei in Italia si svolgevano presso le corti che più tenevano a ostentare la loro ricchezza, Venezia e Firenze prime fra tutte, allestiti sempre con grande sfarzo.
Col tempo, giostre e tornei caddero in disuso e sopravvissero soltanto grazie ai poemi e romanzi cavallereschi.
Ultima modifica di Annali il Gio Ago 07, 2014 12:29 pm - modificato 1 volta.
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